lunedì 26 maggio 2014

Il "bambino buono" e il "bambino felice" - Parte 1°

Foto: disney.wikie.com
Ogni epoca ha un mito proprio, caratteristico, sui bambini. Si tratta di una specie di idea, di ideologia, di ideale su come vogliamo che siano i bambini. Qui ne vedremo due.

Come ogni immagine universale che si rispetti, il mito si presenta con un lato chiaro, che tutti abbiamo alla coscienza, e un lato oscuro, di cui pochi si accorgono.
Un mito molto esplicito per la mia generazione (anni ’50), ereditato dalle generazioni precedente (Secolo XIX – prima metà del Secolo XX), è stato il mito del bambino buono. Per i nostri genitori e maestri – adulti punitivi provvisti di autorità e valori - l’importante era che fossimo “buoni”, che sapessimo stare al nostro posto, che ubbidissimo, che studiassimo, che rispondessimo ai canoni rassicuranti del Cattolicesimo, che seguissimo la strada che la famiglia preparava per noi. Non c’era posto per uscire dalle regole, non c’era posto per le parolacce, per la critica al sistema religioso e al sistema di valori dell’epoca. Le donne stavano a casa, gli uomini facevano il militare. Ognuno aveva i suoi momenti di libertà e i suoi momenti di responsabilità, all’interno di una macchina che sembrava funzionare e che tacitava gli animi. In questo contesto, essere un “bambino buono” era rassicurante: c’era comunque una guida da seguire, anche se i valori perseguiti dal mondo adulto erano valori morali provenienti dall’esterno, imposti, e mancava una visione individuale. Il loro stesso valore principale e primo dovere doveva essere quello di crescere bambini obbedienti, totalmente sottomessi. Quello era il lato chiaro, manifesto, di una mitologia che elicita immediatamente, dentro di noi, il ricordo dei drammi politici del XX Secolo.

Il lato oscuro era rappresentato dalla grande quantità di ipocrisia che tale sistema, massicciamente proiettato sui bambini, conteneva. Fu sulla base di quella specifica mitologia, infatti, che avvenne la rivoluzione culturale del ’68 – che ad anni di distanza possiamo piuttosto classificare come una ribellione, i cui scopi non sono tutt’ora ancora raggiunti. Infatti, i “bambini buoni” crebbero, e crescono, maturando una repressione dei lati istintivi, dell’individualità e dei processi creativi, che rimangono nell’Ombra. Alcune specifiche qualità personali - soprattutto le più artistiche, in quanto fortemente rivoluzionarie - devono essere nascoste, non si possono esprimere. Questo modello è stato gravemente influente anche da un punto di vista collettivo.
Ai giorni nostri, la situazione è proprio al contrario. Come di norma, i miti antichi a un certo punto non funzionano più. Le generazioni successive di solito rompono il ruolo che non desiderano ereditare. Il 1968 è l’anno-simbolo del momento storico-sociale in cui si sono rotti i modelli precedenti. Così ora abbiamo nuovi miti che impediscono la vera crescita e l’individuazione personale!

Il boom economico degli anni ’50 sfociò nel benessere degli anni ’60. La guerra era lontana, almeno per noi, e il mondo sembrava funzionare in modo diverso. Il nuovo mito che cominciò a sorgere in quel periodo, e che esplose decisamente negli anni ’80, è quello del bambino felice. Questo bambino “sognato” viene molto protetto dai genitori, anche se via via questa protezione assume i connotati di mancanza di informazioni sul mondo, progressivamente accompagnata dalla sottrazione del tempo che i genitori trascorrono con i figli.
L’iperprotezione è una caratteristica dei genitori e dei maestri del momento corrente, correlata all’idea di poter crescere i giovani senza che conoscano alcun tipo di “trauma”: in questo caso non si parla di trauma come violenza o evento violento; si parla di trauma, piuttosto, legato al concetto di impegno; la mancanza di questo tipo di “trauma” implica la perdita di valore dello sforzo, e si va al risparmio di tutti i lati di conoscenza che si sviluppano solo dalle esperienze dolorose degli esseri umani.
Nell’ottica di crescere un bambino felice, la vita è presentata esclusivamente come meravigliosa, si deve parlare solo di cose buone e dei valori manifesti, come la condivisione o l’accettare la diversità. Una crisi economica, per esempio, o una malattia, sono condivise in modo reticente coi figli, e vengono vissute come una vergogna o un fallimento.
Il lato oscuro del mito del bambino felice è ben rappresentato dall’immagine del Pinocchio Disney: sono al Paese dei Balocchi, ma mi spuntano le orecchie di un asino!
Ecco dove stanno andando i bambini e i giovani nati negli ultimi 15 anni: se vogliamo che siano solo “bambini felici”, se non possono vedere la sofferenza che c’è nel mondo ed essere accompagnati nella ricerca del senso che ha, se ci si impegna perché possano avere solo le esperienze migliori, avremo progettato una generazione di esseri umani di cartapesta e privi delle cognizioni adatte a sopravvivere. Paura, ingiustizia, povertà, morte, malattia, senso di perdita, carenza, invidia ed esperienze dure: il lato oscuro della realtà, presente, affrontabile e spesso trasformabile con la trasformazione di se stessi, rimane nascosto nell’Ombra della singola persona e del singolo bambino e non può accedere a una evoluzione ampia e reale.
Impedire ai bambini di osservare questi contenuti del mondo significa che anche noi dobbiamo cercare di non osservarli, almeno finché i bambini stanno con noi. Infatti, stiamo mandando il pianeta a rotoli.

Fonte: Irene Henche Zabala, Dai Miti antichi ai Miti moderni: scoprire nuovi simboli per risignificare le attuali forme di legami affettivi; Torino, giugno 2011
Irene Henche Zabala (Madrid), è psicologa clinica, psicodrammatista, terapeuta familiare, specialista in infanzia e adolescenza. Autrice del metodo dello Psicodramma Simbolico.